Provate a chiedere agli studenti più di un paio di frasi e loro vi risponderanno che “non ce la fanno”: e ricordatevi che stiamo parlando di studenti con un’istruzione superiore. La recriminazione più comune è che è noioso. Solo che l’oggetto della lamentela non è tanto in contenuto scritto dei materiali, quanto il banale atto di leggere. Non si tratta soltanto del tradizionale torpore adolescenziale, ma dell’inconciliabilità tra una giovane generazione post-alfabetizzata e “troppo connessa per riuscire a concentrarsi”, e le logiche limitanti e concentrazionarie di un sistema disciplinare in decadenza. Essere “annoiati” significa semplicemente venire esiliati dallo stimolo e dall’eccitamento comunicativo degli sms, di YouTube, del fast food; significa essere costretti a rinunciare, anche solo per un momento, al flusso costante di una zuccherosa gratificazione on demand. Ci sono studenti che vorrebbero Nietzsche allo stesso modo in cui vorrebbero un hamburger: quello che non colgono – ed è un fraintendimento alimentato dalle logiche del sistema consumistico – è che l’indigeribilità, la difficoltà, è Nietzsche.
L’essere imbrigliati nella matrice dell’intrattenimento porta come conseguenza un’interpassività nervosa e agitata, un’incapacità di concentrarsi e focalizzare alcunché. Il modo in cui gli studenti non riescono a mettere in relazione il loro attuale deficit d’attenzione coi fallimenti che verranno, la loro inettitudine nel tradurre il tempo in una narrativa coerente, è sintomo di qualcosa di più che la mera demotivazione. A tornare sinistramente alla memoria è l’analisi di Jameson in Postmoderno e società dei consumi. Per Jameson, le teorie di Lacan sulla schizofrenia offrono un «suggestivo modello estetico» per la comprensione di come le soggettività vengono frammentate dinanzi all’emergente complesso industriale dell’intrattenimento: «una volta spezzatasi la catena significante, lo schizofrenico lacaniano è ridotto a un’esperienza di puri significanti materiali; in altre parole, a una serie di presenti puri e scollegati nel tempo». Così scriveva Jameson alla fine degli anni Ottanta, vale a dire quando è nata la maggior parte dei miei studenti: quella che oggi frequenta le aule scolastiche, è insomma una generazione emersa all’interno di una cultura astorica e segnata da interferenze antimnemoniche, per la quale il tempo è da sempre ripartito in microporzioni digitali.
Se la cifra della disciplina è il lavoratore-prigioniero, quella del controllo è il debitore-tossico. Il cyber-Capitale agisce creando dipendenza nei suoi stessi utilizzatori, e questo lo capì bene già William Gibson: in Neuromante , quando Case e gli altri cowboy del cyberspazio si sconnettono dalla matrice provano un senso di stordimento misto ad allucinazioni tattili, e la stessa dipendenza da speed di Case è chiaramente il surrogato di una forma ben più astratta di anfetamina. Se insomma la sindrome da deficit di attenzione e iperattività è una patologia, si tratta allora di una patologia peculiare del tardo capitalismo: una conseguenza dell’essere connessi a quei circuiti di controllo e intrattenimento che caratterizzano la nostra cultura consumistica e ipermediata. Allo stesso modo, in molti casi quella che chiamiamo dislessia altro non è che post-lessia: gli adolescenti processano dati densamente affollati di immagini senza alcun bisogno di saper leggere davvero; il riconoscimento degli slogan è tutto quello che serve per navigare il piano dell’informazione online e mobile. «La scrittura non è mai stata retaggio del capitalismo. Il capitalismo è profondamente analfabeta», sostengono Deleuze e Guattari nell’ Antiedipo; «il linguaggio elettrico non passa né per la voce né per la scrittura: l’elaborazione dei dati può fare a meno di entrambe». Da qui, ecco forse il motivo per cui tanti imprenditori di successo sono dislessici, anche se resta da capire se questa efficienza post-lessicale sia la causa o l’effetto della loro affermazione.
Riferimento
Mark Fisher, realismo capitalista, 2009